In questi ultimi anni gli sviluppi della scienza e delle tecnologie hanno consentito di allungare la vita media delle persone e l'aspettativa di vita dei cd. malati terminali. Ciò ha posto dei problemi etici e giuridici, nonché morali e religiosi, di non facile soluzione. Il prolungare la fase terminale della vita di un malato molto grave, il garantire un futuro anche a soggetti non più in grado, minimamente, di prendersi cura di se stessi, ha fatto sorgere delicati interrogativi in merito alla compatibilità di questi trattamenti terapeutici d'avanguardia con la dignità che ad ogni individuo va riconosciuta, indipendentemente dal suo stato di salute. In particolare, ciò che più tormenta le coscienze e la ragione della scienza medica, di quella religiosa e di quella del diritto, ruota intorno al valore da attribuire alla volontà del soggetto malato circa il trattamento terapeutico ed assistenziale da praticare quando il soggetto non è più capace di intendere e di volere. Si è da poco passati da un modello paternalistico della medicina, ad un modello dove assume un ruolo fondamentale l'individualismo e la tutela della libertà di autodeterminazione. In questo modello il consenso del paziente agli interventi terapeutici - chirurgici è imprescindibile. Il consenso deve rappresentare l'esito di un libero potere di scelta consapevole, il quale, per essere tale, presuppone che il paziente sia informato delle cure a cui potrà essere sottoposto, dei benefici di tali cure, della proporzione tra benefici e rischi ad esse connessi, della probabilità di un esito infausto ecc. L'articolo 30 del codice di deontologia medica del 1998 prescrive al medico di fornire al paziente la più idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive ed eventuali alternative diagnostico terapeutiche e sulle prevedibili conseguenze delle scelte operate. Ogni richiesta di informazione da parte del paziente deve essere soddisfatta. L'articolo 32 prescrive di non intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l'acquisizione del consenso informato. Il comma 4° dell'art. 32 prescrive al medico, in presenza di documentato rifiuto da parte di persona capace di intendere e di volere, di desistere dai conseguenti atti diagnostici e /o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona, salvo che si tratti di minore di età o di un maggiorenne infermo di mente. Fermo restando che se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà in caso di grave pericolo di vita il medico non può non tenere conto di quanto precedentemente manifestato dallo stesso (art. 34). Il consenso per poter essere rilevante deve essere espresso da un soggetto capace di intendere e di volere. Si pone, dunque, il problema di conciliare questa esigenza naturale con l'esigenza di rispettare la volontà del soggetto anche nei momenti in cui, a causa del suo stato di salute, non sia in grado di manifestarla. Come si può esplicare il diritto all'autodeterminazione del soggetto nell'ipotesi in cui sopravvenga un'incapacità fisica o mentale? La risposta, sopratutto nei paesi di common law, è stata nel senso di attribuire rilevanza alla volontà espressa dal soggetto in un momento precedente al sopravvenire dell'incapacità. Gli Stati Uniti sono stati i primi a riconoscere la legittimità e la validità del living will (testamento di vita), che consiste in una dichiarazione nella quale il soggetto dà le indicazioni da seguire nelle ipotesi in cui, a causa di una grave malattia, generalmente terminale, non sia capace di manifestare la propria volontà circa il trattamento a cui essere sottoposto. Il living will si inserisce nel più ampio contesto delle cd. advanced directives. Il testamento di vita, anche detto testamento biologico, trae fondamento dal diritto a morire con dignità. Il diritto a morire con dignità appartiene alla categoria dei diritti di terza generazione (diritto alla pace, alla ambiente, diritto di procreare ecc.), che, nel nostro ordinamento, troverebbero un riconoscimento implicito nell'articolo 2 della Costituzione. Secondo una tesi, il diritto a morire con dignità legittima l'uso di sostanze lenitive del dolore. In questo orientamento si inserisce la recente pronuncia di un giudice veneziano che ha autorizzato l'uso della marijuana ad una paziente affetta da tumore per lenire le sofferenze. Inoltre, è riconosciuto come legittimo il rifiuto dell'accanimento terapeutico. Una seconda tesi prevede che, il diritto a morire con dignità, quale espressione del principio di autodeterminazione individuale, postula il diritto a rifiutare ogni insopportabile sofferenza fino a configurare la morte come mezzo per eliminare definitivamente la sofferenza stessa. Si legittima, quindi, secondo quest'orientamento, l'eutanasia terapeutica volta ad accorciare la vita e le sofferenze dei malati gravi.
A livello europeo non c'è ancora una disciplina uniforme che stabilisca la rilevanza delle direttive anticipate e del testamento biologico nei singoli Stati membri. Sono state adottate solo norme di principio. Nel 1976 il consiglio di Europa adottò una raccomandazione, la n°779, dei diritti dei malati e dei morenti, nella quale si afferma che i diritti da garantire ai malati sono: dignità, integrità, informazione, cure, il rispetto della volontà ed il diritto a non soffrire inutilmente. Nella raccomandazione vengono individuate tre casi in cui sussiste il problema circa la possibilità di rinunciare o meno all'intervento per prolungare le cure: malato preagonico, analgesia invasiva, le dichiarazioni di volontà con le quali persone capaci di intendere e volere rifiutano trattamenti idonei a prolungare la loro vita. Nel 1997 è stata adottata la Convenzione sui diritti dell'uomo e la biomedicina, sottoscritta anche dall’Italia, nella quale vengono fissate norme di principio relative alla protezione della persona in tutte le sue condizioni esistenziali, salute, malattia ecc. In particolare, l'art. 9 prevede che la volontà espressa anteriormente da un paziente, che al momento del trattamento non sarà in grado di manifestare la sua volontà, sarà presa in considerazione.
In Italia non c'è alcuna normativa sul testamento biologico. Negli ultimi anni, però, è in atto un dibattito che coinvolge sia i medici, sia i religiosi, sia i giuristi. Nel 1992 è stata proposta la Carta dell'autodeterminazione da parte della Consulta di bioetica. La Carta si fonda sul principio di autodeterminazione di ciascuno al fine di garantire il diritto ad esprimere il consenso o a rifiutare i trattamenti terapeutici e/o chirurgici. A tal fine viene valorizzata la volontà del soggetto riconoscendo valore alle direttive anticipate. Nel 1998 la Carta è stata trasfusa in una proposta di legge. Vi sono state, poi, altre proposte di legge, ma nessuna è finora sfociata in un atto legislativo vero e proprio.
La legge n°91 del 1999 al fine di rendere possibile il trapianto di organi e tessuti dopo la morte, richiede l'autorizzazione del soggetto attraverso una dichiarazione di volontà da esprimersi in vita presso l’azienda sanitaria locale, o presso il medico di famiglia, o tramite la compilazione dell'apposita tessera messa a disposizione dal Ministero della sanità. Si è affermato, infatti, che “il riconoscimento di un potere così penetrante sulle proprie spoglie post mortem mal si accorderebbe con il mancato riconoscimento di rilievo alla volontà destinata a valere in un momento precedente alla stesa morte.”
Fatte queste premesse, ed alla luce dei fatti degli ultimi giorni, è opportuno chiedersi quanto possa essere corretto, in una società multietnica e multirazziale, dove ideologie e religioni si incontrano e, a volte, scontrano, imporre un comportamento da tenersi mediante una legge. Si può affermare con un certo grado di sicurezza che il riconoscimento dell’istituto del testamento biologico (o dichiarazione di volontà o testamento di vita) in Italia riconoscerebbe a tutti la libertà di scelta. Chi decidesse per propria scelta di interrompere la propria vita nel caso in cui si trovasse in incapacità di intendere e di volere così come chi scegliesse di non farlo. Un vecchio broccardo latino riportato sul manuale di diritto privato “Torrente-Schlesinger” dice: “servi sumus legibus ut liberi esse possumus” (siamo schiavi della legge per poter essere liberi). L’andamento attuale delle cose lascia pensare che la legge non renderà libero nessuno o, forse, solo alcuni.
Vi invito a riflettere e commentare questa nota, la cui realizzazione è il frutto di una ricerca in rete e di una serie di “copia-incolla” che mi hanno permesso di farmi un’idea del problema.
Io vorrei poter essere libero di scegliere.
Vorrei essere in grado di dire qui ed ora che, nel caso in cui mi trovassi nella situazione di Eluana Englaro o di Terry Schiavo, non vorrei che la mia vita proseguisse.
Vorrei essere padrone della mia vita e della mia morte.
Ma non posso.
L’unica opportunità che ci si presenta è visitare con attenzione questo link: http://www.exit-italia.it/
Altrimenti si potrebbe raccogliere delle firme per una proposta di legge, che, sempre secondo la legge, può partire dal popolo, visto che siamo in una democrazia.
Voglio essere libero di scegliere per me.
Vorrei che ognuno di noi potesse essere libero di scegliere.
La mia libertà finisce dove inizia quella dell’altro.
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